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Il Romanzo di Monteserico, SOTTO L'ARCO DI EROS di Ettore Lorito

 

Lo sponsalizio

 

    Per diversi mesi, i preparativi delle nozze, i viaggi per la scelta, l'apprestamento del corredo nuziale e degli abiti e per gli acquisti dell'arredamento necessario alla nuova dimora, occuparono completamente la mente della contessina che credette di aver superato il suo male e di aver trovata finalmente la pace agognata.

    Da parte sua, il marchesino circondava la fanciulla delle più delicate attenzioni e d'un amore grande, puro, discretissimo al punto che era riuscito a creare, intorno alla promessa sposa, un'atmosfera di serenità, di bontà, di pace.

    In un mattino di primavera, Clotilde andò sposa al marchesino Xxxxx nell'umile cappella del santuario di Monteserico, per l'occasione la torre, le mura, gli spalti del castello erano stati ornati a festa e sulle cime più elevate del maniero sventolavano, le insegne dei Sancia e quelle del marchesino, tra merlo e merlo rilucevano gli scudi dei due nobilissimi casati.

    I pennoni, gli archi d'alloro che ornavano il tratto di spianata che menava alla chiesetta, erano stati apprestati dalle forosette, dai pastori e da tutti i bisognosi del feudo beneficati dalla « fata di Monteserico », in ogni occasione.

    Subito dopo il rito, gli sposi, scortati da un brillante gruppo di cavalieri e da alcuni « froci », si avviarono verso Trani, prima tappa della novella vita.

    Per la sposina il distacco dal castello, nel quale era cresciuta e aveva provato tante pure gioie e così atroci sofferenze, fu penosissimo anche per l'assenza del compagno della sua infanzia costretto a non poter lasciare Napoli per gravi motivi politici, e mentre il corteo procedeva, allegramente, verso la prima tappa del viaggio, l'animo della contessina piangeva in silenzio e le di lei labbra mormoravano: « Addio, " fonte delle sirene ", che aveva parlata al cuore della ragazza, per molti anni, la più bella, la più misteriosa delle lingue!    

    Addio, umile santuario, nel quale aveva aperto il suo animo alla Vergine protettrice del Monteserico, nei momenti di gioia e di dolore. Addio,, contessa zia, affettuosa più che una madre, raro esempio di bontà e di gentilezza, donna di squisito tatto, dalle parole che sapevano trovare sempre le vie del cuore specialmente se esprimevano un richiamo o un rimprovero, addio, cavalcate pazze per le poetiche ombre dei boschi, addio, rudi ma fedeli « froci », docili strumenti di tutti i capricci giovanili! ».

    Quando il corteo giunse al tratturo del Guaragnone, che separava il Monteserico (e quindi la Basilicata) dalle Puglie e i « froci » presero commiato per far ritorno al castello, Clotilde non poté contenere il pianto e le lacrime scesero calde e silenziose sul suo pallido viso mentre il nome dell'amato fratello, le saliva sulle labbra dal profondo del cuore.

    Partiti gli sposi e gli ospiti, il castello di Monteserico cadde nel silenzio più triste, la vecchia contessa non si mosse dal suo appartamento mai più, il personale del maniero cercò di non turbare, in nessun modo, la nobildonna che portava sul viso le impronte dei non pochi dolori sofferti, nemmeno il pellegrinaggio dei genzanesi alla Madonnina di Monteserico riusciva a sollevare il pesante velo di mestizia sceso sul castello.    

    Il marchese fece ancora qualche visita, poi impigliatosi nelle lotte politiche e nelle congiure, che sorgevano in ogni parte del reame, contro la tirannide borbonica ed in favore dell'unità nazionale, non si fece più vivo.

    Il conte Rodolfo si era definitivamente stabilito a Napoli, per portare a termine i suoi studi e, intanto, si era coinvolto nei moti politici ed era tra i capi più autorevoli e più accesi del movimento rivoluzionario napoletano.

    Solo Clotilde faceva pervenire sistematiche notizie sue e teneva la zia al corrente di quello che si stava preparando, ciò rendeva ancor più melanconica la contessa, conscia dei pericoli a cui i suoi congiunti andavano incontro.