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Il Romanzo di Monteserico, SOTTO L'ARCO DI EROS di Ettore Lorito

 

Epilogo

 

    Nel momento in cui il colpo di scimitarra ferì mortalmente il legionario Gabrielli, una suora, sbucata non si sa da dove, raccolse il caduto e, per vie traverse e passaggi segreti, lo fece trasportare in casa di un vecchio medico, assai noto in tutta la regione per il suo attaccamento al governo borbonico, ma prezioso e segreto alleato del Carafa.

    Là il ferito ebbe tutte le cure e l'assistenza necessaria, tuttavia lo stato del ferito rimase sempre gravissimo tanto che il medico temeva la morte da un momento all'altro.

    La suora, che aveva salvato il legionario dall'oltraggio osceno che i turchi facevano ai feriti ed ai cadaveri caduti nelle loro mani, piangeva disperatamente, inginocchiata ai piedi del letto, e rifiutava ogni conforto ed anche il cibo, che il nobile dottore si faceva premure di offrirle.

    Due giorni e due notti durò l'atroce agonia e solo alla fine della seconda nottata, il ferito riprese, per poco, coscienza e poté essere informato dell'accaduto e della fuga del nemico.

    Il moribondo chiese di conoscere la pietosa suora che l'aveva raccolto.

    - Eccola, non si è mossa dai piedi del letto, - disse il dottore, indicandogli suor Addolorata.-

    - Grazie, suora Iddio la benedica per quello che ha fatto e farà in favore di chi combatte per l'indipendenza e la libertà della patria ma... si avvicini perché io possa portare nella tomba l'immagine di una nobile rappresentante delle serve del Signore e delle donne veramente italiane.

    - Perdonami, fratello, - disse fra i singhiozzi la suora, mentre si levava per baciare i piedi del legionario. Gabrielli intravide il volto della sorella e ... pianse in silenzio.

    Il dottore si allontanò, con le lagrime agli occhi, per qualche tempo, si intese solamente il singhiozzare sommesso della suora e il respiro affannoso del moribondo.

- Perdono, fratello, replicò la marchesa, So che la mia insana passione ti ha spinto a cercare la morte, perdonami, in nome di Cristo, oramai la mia vita si appartiene a Dio ed alla patria, ovunque si soffra o si muoia, ovunque si combatta per la libertà di questa nostra terra, darò la mia opera, il mio aiuto, il mio sangue, spero così di redimere la mia anima riconciliata con Dio ed anelante al tuo perdono.

    - Ascoltate., figliuoli, - disse il dottore, che si era avvicinato al ferito per sostenerne le stremate forze:

«Una volta gli uomini non conoscevano il perdono ed erano malto più infelici di adesso perché conservavano nel cuore i loro odi e se ne amareggiavano.

    Il buon Dio ne ebbe pietà, chiamò due dei suoi angeli più belli e luminosi e disse loro: " Voi andrete a stare sulla terra, fra gli uomini, vagherete, angeli terresti, ombre silenziose, tra le regge e i casolari, verrà da voi una piccola luce a tutti i cuori ». I due angeli si sentirono profondamente tristi perché dovevano esulare dal Regno della Luce, ma chinarono le candide fronti, ed ubbidirono.

    Con le bianche ali spiegate attraversarono gli spazi dei cieli, toccarono i monti più alti, poi oltre le bufere, oltre i ghiacci e le nevi, giunsero alle case degli uomini ".

    Quando furono arrivati, si avvidero che non avevano più le ali, perché ormai dovevano rimanere sulla terra si guardarono in volto, piansero per la nostalgia della Luce, poi si fecero forza e presero a vagare fra la gente.

    D'allora in poi sono rimasti sempre quaggiù, questi angeli rendono meno triste l'esistenza degli uomini, uno si chiama Pietà, e l'altro Perdono (1), e li sento in questo momento aleggiare in casa mia ».

Il conte Rodolfo accennò ad un lieve segno di benedizione verso la sorella, poi disse:

    - Grazie, dottore, veramente i due angeli hanno visitato questa dimora, ho perdonato.

    Ringrazio Iddio di avermi serbato l'onore di morire per il bene del popolo oppresso ed affamato, per la mia patria, che ho sognato forte, indipendente, libera dallo straniero e dai tiranni.

    Riscatto così, col sangue, il... fallo commesso in un momento di debolezza, e tu, sorella, prega per la mia anima, tu che sconti, con opere meravigliose di carità, il torto di aver amato chi non è lecito amare, si, il peccato d'amore si riscatta con l'amore, nessuna creatura umana è mai irreparabilmente perduta...

    - Più non disse.

    Un sudore freddo apparve sul volto del moribondo, Rodolfo sollevò il capo dal guanciale e subito pesantemente lo riabbassò aprì, lentamente, gli occhi e fissò, per qualche istante, la lampada che crepitava innanzi ad una immagine del Redentore e le labbra abbozzarono un sorriso.

Il disperato singhiozzare della suora, annunziò la fine del legionario Gabrielli.

 

* * *

 

    Due sere dopo, giunse a Barletta, scortato da una suora e da un vecchio signore, un carretto che trasportava, tra allori e fiori, una modesta bara e si fermò innanzi alla chiesa di santa Chiara, nonostante l'ora tarda, per i tempi che correvano, il portone dell'annessa. clausura venne prontamente aperto e subito rinchiuso alle spalle del mesto corteo.

    La bara, contenente la salma del conte, fu collocata nel centro della cappella maggiore, ove ricevette la benedizione, mentre le clarisse, disposte dietro le fitte grate, commosse, salmodiavano.

    Accanto al grandioso mausoleo che custodiva, avvolto nell'umile saio di clarissa, il cadavere della nobil donna Aquilina Sancia, morta nel convento di santa Chiara di Genzano di Basilicata, e colà tumulata, venne sollevato il coperchio di un avello e deposte le spoglie mortali del conte Rodolfo Xxxx.

    Due religiosi, inginocchiati ai piedi della tomba, imploravano: « Signore, dà pace al tuo servo e accoglilo nel Paradiso, lì dove i Santi e i giusti risplendono come astri, dà pace al defunto tuo servo, perdonandogli i suoi peccati? ».

    Quando la pesante lastra di marmo fu abbassata sulla tomba, un grido, che non aveva nulla di umano, echeggiò nel tempio e la suora, che aveva accompagnato il feretro, scomparve tra le tenebre che avvolgevano la città addormentata.

    Le clarisse, per qualche secondo, tacquero... e poi ripresero a recitare le loro preghiere, ma il pianto risuonava nei pii accenti.

 

* * *

 

    Non appena il Carafa, che aveva apprezzato il valore del legionario Gabrielli e, forse, conosceva la triste istoria della sua famiglia, venne informato della scomparsa, mandò severi ordini perché si facessero le più minute ricerche al fine di rintracciarlo.

    Quando seppe la fine gloriosa dell'intrepido giovane, una lacrima apparve sul duro ciglio del capo a tutti noto, per la stia impassibilità innanzi agli eventi più commoventi.

    Degno tributo di omaggio per quella gagliarda giovinezza così immaturamente stroncata.

 

* * *   

 

Suora Addolorata seguì le varie dolorose vicende della colonna Carafa e sfuggì, miracolosamente, al ripurgo ordinato dall'infame regina Maria Carolina, contro lo stesso parere del famigerato cardinale Ruffo.        

    Però, nell'ecatombe del 1799, chi in combattimento e chi sul patibolo, perdettero la vita i più insigni patrioti, tra i quali, il marito di donna Clotilde ed il ventenne marchese di Genzano, Filippetto Demarinis, congiunto di Rodolfo.

    Il principe di Carafa, unico superstite della valorosa schiera dei capi del movimento rivoluzionario, dopo aver difesa la fortezza di Pescara, ultimo baluardo della sognata libertà, cadde nelle mani dei nemici, ma era riuscito a mettere in salvo suora Addolorata ed, alcuni nobili giovani della città che l'avevano seguito.        

    Trasportato a Napoli e condannato a morte, ebbe il coraggio di scuotere le mani incatenate sul viso dell'insolente giudice Sambutti, svergognandolo e coprendolo di ridicolo innanzi al tribunale della pubblica opinione e della storia.

    Il giorno in cui l'insigne patriota fu condotto al patibolo, sotto il saio di uno dei frati che accompagnavano il condannato, vi era l'intrepida suora Addolorata sull'infame palco, nel disporsi supino per essere decapitato fissando la scure del carnefice, il Carafa ravvisò la marchesa Clotilde e, grato, le sorrise.

    Morto il Carafa, di suora Addolorata non si seppe più nulla, nel frattempo, era deceduta la vecchia contessa e il castello di Monteserico era rimasto abbandonato.

 

* * *   

 

 

    Nel contado si narrava, però, che durante le notti di plenilunio, spesso, si sentiva echeggiare nella valle un grido straziante a guisa di un profondo lamento, nello stesso tempo, un fantasma saliva dall'abisso e s'aggirava sul castello per tutta la nottata e sino alle prime ore del mattino, ciò, dicevano gli anziani, si ripeteva da secoli, in conseguenza di una tristissima tragedia nel maniero avvenuta, eccola:

    Uno dei primi signori del castello aveva sposato, da pochi mesi, la più bella fanciulla della regione e la teneva gelosamente custodita, come una gemma d'incalcolabile valore, avvenne, che il detto signore, dovette partire per la Terra Santa con altri cavalieri, come capo, perché ritenuto il prode dei prodi.

    Un giovane paggio, aveva osato alzare gli occhi sino alla sua signora e, abbagliato dalla eccezionale bellezza, le cantava, inutilmente, i più bei inni d'amore.

    Una notte di plenilunio, in cui la sposina abbandonata, sull'infiorato spalto, sospirava e pregava perché il suo compagno facesse presto ritorno, accecato dalla passione, l'innamorato paggio cercò di ottenere, con la violenza, quello che non era riuscito a conquistare con l'amore.

    La casta signora, all'impuro tentativo, emise un grido straziante, che echeggiò sinistramente per tutta la vallata, e si precipitò, a capo fitto, nel sottostante burrone.

    Da quella fatale notte, tutte le volte che il castello è disabitato, e solo nelle notti di plenilunio, un fantasma si aggira sulle terrazze del maniero e per l'aria vaga un flebile lamento, fino alle prime ore del seguente mattino.

    Fin qui la leggenda, ma di ben altra natura era il fantasma che si vedeva vagare sugli spalti e sulle terrazze del castello, è stato assodato, che nel sotterraneo che dal maniero menava ad una uscita di sicurezza, in direzione della contrada « Regina », venne trovato lo scheletro di una donna anziana avvolto in un resto di stoffa, sicuramente appartenente ad un abito di suora.

    Evidentemente, donna Clotilde, quando le fortune d'Italia parvero, per sempre, tramontate, per sfuggire alle persecuzioni, si dovette ritirare e chiudere sola, e forse demente, nel luogo che vide la sua fiamma impura e continuare ad espiare, nella solitudine più assoluta, il suo peccato... così come era scritto.

    Di tante tempeste nessuna traccia ha conservato il maniero, tuttavia, non molti anni fa, prima che l'edificio andasse in rovina e venisse, in parte, riattato e rimodernato dai Cafiero, su di un bassorilievo che

adornava la « Fonte delle Sirene » e raffigurante uno dei tanti miti di Eros, si leggeva l'accorata invocazione del Praga, probabilmente incisa dalla mano malferma della decrepita protagonista del « ROMANZO di MONTESERICO »

 

 

                                                                                   

Per gli amanti pregate, supplicate il Signore, che creò la sventura quando creò l'amore.

 

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(1) Valentino Piccoli.