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Il Romanzo di Monteserico, SOTTO L'ARCO DI EROS di Ettore Lorito

 

Un giudizio al castello di Monteserico

 

      Durante la malattia della contessina, ebbe luogo il giudizio contro il pastorello, era di domenica, la sala nella quale la castellana, per antica concessione, amministrava la bassa giustizia era collocata al pian terreno accanto all'alloggio dei « froci ».

      Oramai si apriva raramente e, spesso, rimaneva chiusa per diversi anni consecutivi infatti si vedevano impolverati ed arrugginiti gli strumenti della tortura. alle ore dieci precise, la castellana entrò nella sala seguita dal cancelliere e dal capo dei « froci » che funzionava da giustiziere.

      La settantenne contessa, era una donna di bella presenza e di salute florida, nonostante la sua età, la sua fisionomia ispirava fiducia ed il suo parlare dimostrava saggezza e bontà, la voce, sempre tranquilla, era carezzevole come una delicata melodia.

      Si sussurrava al castello, che la nobil donna aveva molto sofferto, moltissimo pianto e scontato, con lunghi anni di lutto, di vedovanza e di volontario esilio, l'onore di aver brillato, come astro maggiore, nella corte di Francia.

      Ritiratasi a Monteserico, dopo l'avvelenamento dell'unico figlio, attribuito agli intrighi della corte, aveva conservato sempre sentimenti puri e spirito di moderazione, e se, con l'età, aveva perduto il fiore della fresca bellezza, era ugualmente riuscita, per la sua bontà, ad accattivarsi le anime dei vassalli, dei terrazzani e di tutti gli umili del contado, come prima aveva innamorate quelle dei cortigiani e dello stesso sovrano.

      Il cancelliere aveva l'aspetto di un grigio sagrestano, era un omicciattolo, apparentemente umile, ma d'indole feroce, il suo aspetto fisico era ributtante, il naso camuso, leggermente rivolto a sinistra, gli dava un aspetto mostruoso, specialmente perché il vecchietto era privo dell'occhio destro.

      Portava, nei giorni di giudizio, un piccolo spadino col fodero d'argento in segno della sua carica, era oriundo di Spinazzola, apparteneva alla nobile famiglia V... ed era di una ferocia pari alla sua ignoranza e perciò da tutti temuto.

     Introdotto nella sala l'imputato, il cancelliere, con la sua voce di decrepita cornacchia, lesse l'atto di accusa in cui era detto che « il pastorello era stato sorpreso a rubare un agnello e che perciò lo si riteneva responsabile di tutti i furti del genere, che da mesi, si consumavano in danno del castello e degli affittatari».  

      Il giovinetto affermò di aver rinvenuto l'agnello in un burrone e si protestò innocente nei riguardi dei reati attribuiti a lui, ma alla minaccia della tortura, fatta dal cancelliere, il malcapitato si dichiarò autore di tutti i furti consumati in quella zona ed anche di quelli non accertati e forse mai avvenuti.

      In base alla estorta confessione dell'imputato, il cancelliere propose: « Un tratto di corda al giorno per una settimana; un mese di lavoro al castello, senza paga e a vitto ridotto, il pagamento di ducati dieci, per indennizzare i danneggiati e per le spese di giustizia ».

      La contessa ridusse la pena alla metà, - Giustizia è fatta - esclamò il capo dei « froci » e invitò i presenti a sgomberare la sala, ma il padre di Florusio, dopo di aver ringraziato, in ginocchio, la contessa, con molt'abilità, fece scivolare, nelle mani del cancelliere, una moneta d'oro e la pena corporale non venne mai scontata, anzi, quella losca figura di cancelliere, finse di chiudere gli occhi sulla mancata espiazione della pena corporale, solo per non arrecare dispiaceri all'ammalata contessina che, in favore del giovinetto, era intervenuta.