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 GENZANO DI BASILICATA- Cronografia - di Ettore Lorito

PARTE QUARTA

CAPITOLO II

DON LUIGI MENNUNI SCRISSE:

    «Mi fu dato per lettore il Sacerdote Don Oronzo Albanese di Tolve, laureato in legge che per le sue idee liberali infelicemente lasciò la vita sulle forche del 1799, alla fine del 1797 fui mandato a Napoli per perseguire lo studio, sopraggiunse l'epoca fatale alla gioventù che fu quella del 1799,  ascritto alla Guardia Nazionale prestai il mio servizio.

    Il Marchesino di Genzano (che perde la vita nell'epoca stessa sotto la scure) giovinetto di età uguale volle abitarmi nel suo "palagio" a Fontana Medina n. 25.

    Questo contatto mi portò a seguire il Generale Matera (morto sulle forche del 1799) nelle Puglie, cioè fino a Benevento e quindi nella Torre Annunziata presso il generale Schipani, morto sulle forche, che poi nel 14 giugno 1799, ritirandosi la colonna di Schipani venne disfatta in Portici, ed io fui arrestato sotto il Casino del duca di Gravina, battuto, denudato, e scalzo fui trasportato nelle stalle del quartiere di Portici con tanti altri infelici nudi, e feriti a mezzo pane nero ed acqua fetente.    

    Dopo dieci giorni senza alcun soccorso fummo menati e trasportati in piccola galera di Portici, che se dopo sei giorni non ci avessero tolti, saremmo periti.  

    Ci tolsero di giorno, e nell'imbarcarci nudi fummo bastonati e beffeggiati dalla furia del popolo che voleva scannarci.

    Giunti su delle barche all'oggetto preparate, quantunque a mezza razione di gallette nere. Dopo venti giorni si portò un delegato di Quartiere presso del quale si trovava la polizia e per ordine alfabetico ci chiamava, prendeva i connotati, e quindi ci sottometteva l'obbligo di essere "straregnato", di non ritornare nel Regno.

    Accettai di buona voglia il partito perché mia intenzione era quella di uscire e mai più ritornare.    

    In questo intervallo e precisamente il giorno 10 agosto 1799, fui sbarcato all'Immacolatella, colà carico di funi fui condotto nelle carceri della Vicaria transitando la Piazza del Carmine.

    Senza la forza della Cavalleria, la fanteria che ci scortava non bastava a contenere la canaglia che in ogni momento ci voleva sacrificare, in modo che neppure nelle carceri eravamo sicuri, da poiché per lo più avveniva che anche dal di fuori si minacciava la vita.

    Ma dieci giorni passarono, ed una notte mi vidi con altri dannati trasportato ed essere imbarcato per Gaeta.

    Dopo tre giorni di cammino giunsi in Gaeta, comandava il Marchese della Scembrecca Siciliano con un Reggimento venuto da Sicilia.

    Sbarcato di giorno, e con tutti gli altri arrestati fummo assoggettati alla stessa catena. Fui menato sopra al Castello della Piazza e da quei "corabbozzoli" fui messo in orrida galera.

    Il cibo fu mezzo pane nero e acqua di pessimo odore, dopo due mesi mi ammalai e passai all'Ospedale in dove fui assoggettato a lunga catena di ferro ai piedi ad onte di essere febbricitante.

    Nell'Ospedale mandò la mia famiglia il bisognevole, il poco mi fu di gran sollievo... passarono sedici mesi, dopo il comando del Scembrecca ci venne S. E. Shilipplustad.

    Costui promise libri, e meno restrizioni, mi giovò la lettura del giorno, il conversare con uomini distinti nelle scienze.

    Passai all'Isola di S. Stefano, fui imbarcato di notte, e l'indomani giungemmo all'Isola di Ventotene, in dove risiedeva il comandante che era un famoso galeotto di Sicilia.

    Costui ci diresse all'ergastolo di S. Stefano, in dove fummo chiusi a quattro ed a cinque in differenti "corabbozzoli".

    Ci si promisero le passeggiate, mediante il pagamento mensile che da tutti gli arrestati si corrispondeva, restai in quel luogo sei mesi e più giorni ne sortii al 22 giugno 1801».