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Il Romanzo di Monteserico, SOTTO L'ARCO DI EROS di Ettore Lorito

 

II castello

 

    Nel centro dell'ubertoso Monteserico sorge un rude maniero che porta lo stesso nome della contrada, fondato, in epoca remota, come luogo di villeggiatura; fu una villa di un ricco cavaliere romano, che aveva come stemma un serpente (il basilisco?) in atto di scalare un castello merlato e finestrato (1).

    Ad opera di Ottone II, si provvide a trasformarlo in luogo di difesa; altre trasformazioni subì in epoche posteriori.

    Il maniero, modesto nelle sue proporzioni, sorge sulla cima del monte che dà il nome alla contrada, a cinquecentocinquantasette metri sul livello del mare.

    È formato di un'ampia massa rettangolare, foggiata a scarpa, dalla parte inferiore, e continuata, al di sopra, da un basso maschio a forma di parallelepipedo.

    Degni di rilievo sono i piombatoi, a forma di artistiche verande, e le preziose mensole di sostegno.

    Ai piani terreni si accede direttamente dal portone; nell'interno vi è una breve corte quadrata che separa il maschio dalla massa esterna che lo recinge.

    Una scala a chiocciola, molto angusta, mena ai piani superiori occupati, al tempo degli avvenimenti narrati, il primo, dagli appartamenti dei castellani; i pochi locali del secondo piano, dalle vedette e dal personale di servizio.

    La cancelleria, gli alloggi per gli armigeri, i magazzini, le stalle, le cantine erano collocati nei locali terrani.

    Il castello è unito alla spianata esistente a sud-est, a mezzo di un ponte levatoio, mentre, dagli altri lati, si erge a picco sulla nuda roccia.

    Il profondo fossato che un tempo, pieno d'acqua, difendeva la parte che l'univa alla spianata, era stato trasformato, dagli ultimi Sancia, in una serra di fiori e metteva una nota gaia, vivamente contrastante con l'aspetto severo del fabbricato e col silenzio che regna­va in quel luogo straordinariamente isolato.

    All'arrivo dello sfortunato conte e dei bambini, il castello era abitato dalla contessa Berenice Xxxx, congiunta dei Sancia, ivi rinchiusasi, in volontario esilio.

    Il cronista avverte, che allora era pericoloso avventurarsi da solo e disarmato per quelle campagne, sebbene la castellana mandasse in giro numerose guardie a cavallo, chiamate « froci », a causa del loro aspetto poco rassicurante e della loro eccessiva severità, al fine di proteggere la proprietà e gli armenti dai ladri che infestavano il contado.

    Spesso, gli audaci predoni, pagavano con la vita le loro gesta criminose, perché dai « froci » non c'era da aspettarsi pietà; giustizia sommaria veniva fatta e sul posto, ciò per antica consuetudine e in forza dell'editto di Rotari del 643 che autorizzava i danneggiati a uccidere gli autori del danno campestre, colpiti in flagranza (2).

    Qui passarono la loro infanzia i due nobili orfani sotto la guida della vecchia zia, di una rigida istitutrice, di un vecchio professore, che adempiva an­che alle funzioni di bibliotecario ed in compagnia del cancelliere facente anche le funzioni di erario, non che del personale di servizio e di scorta.

    Crebbero, all'ari libera, rigogliosi e belli come fiori alpestri; nessun contatto col mondo; nessuna visita,   diversivo unico all'abituale solitudine, veniva offerto dal pellegrinaggio che, una volta all'anno, e precisamente nella prima domenica di maggio, la popolazione di Genzano faceva all'umile santuario di Monteserico, e dalla fiera che, in tal giorno, si celebrava sui quattro carri di terreno annessi alla cappella e di proprietà del santuario.

 

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(1) Una vasta contrada del Monteserico porta ancora il nome di « Serpente ».

(2) Veramente l'editto riguardava le manomissioni dei limiti delle proprietà e delle strade e venne abusivamente esteso ai danneggiamenti campestri in genere.